La mia “storia d’amore” con la subacquea

A volte si tratta di frammenti di immagini, altre volte di sensazioni: i ricordi di quando eravamo piccoli sono pochi, sfocati e incompleti. A me un solo ricordo è rimasto impresso e spesso ritorna alla memoria con un flash abbagliante… Come accadeva in tutti i giorni estivi di mare calmo, ero con mio padre, quel giorno di 40 anni fa, al largo di Santa Maria di Castellabate quando sporgendomi dalla sua barchetta guardai il blu scuro, e desiderai di scorgere cosa ci fosse lì giù. Dieci anni dopo, una busta contente 500 mila lire, ricevuta per il mio sedicesimo compleanno sancì il mio diventar grande. Quei soldi, i primi ricevuti per mia autonoma gestione, mi sarebbero serviti per studiare, per conseguire il mio primo brevetto e per le prime immersioni. Era l’estate del 1990 e finalmente potei varcare le porte del CESUB: uno dei primi centri subacquei istituiti in Italia ad opera di alcuni pionieri appassionati di archeologia subacquea, coadiuvati dagli studiosi più qualificati della stazione Zoologica di Napoli, ma soprattutto da Pietro Dorhn, uno scienziato tedesco, un gigante della Storia dell’Ecologia italiana che ispirò la realizzazione di un’Area Marina Protetta lungo le coste del Cilento. Mi accolse Gabriel, il mio istruttore: un anziano signore, assomigliava a braccio di ferro e si spostava per le vie del paese con una curiosa Dumbaghi bianca; aveva problemi all’udito a causa dei timpani perforati nelle sue prime immersioni, quando la medicina non aveva ancora scoperto le tecniche di compensazione. Ero l’unico discente. Gabriel mi impartiva nozioni teoriche miste alla narrazione di avvincenti esperienze vissute in prima persona come quella della scoperta del “Relitto di Punta Licosa”, la cosiddetta nave di Proculus.

Tutto molto affascinante, ma io fremevo per andare in acqua e Gabriel, sfogliando un libro di teoria appoggiato su un mucchio di vecchie carte nautiche, mi disse: “Prima di mettere le bombole sulle tue spalle devo essere sicuro che sulle stesse spalle sia ben piantata anche una testa”. Questa frase, che ancora oggi riecheggia nella mia mente prima di ogni immersione, penso che sia l’essenza della subacquea. Trascorsi 5 lunghissimi giorni di studio teorico, finalmente la prima immersione: fui dotato di una muta di una taglia in meno, rigida e usurata e di una bombola arrugginita indossata con semplici bretelle, il GAV non era previsto. Il primo esercizio consisteva nel trovare il giusto assetto con i miei polmoni e la mia zavorra; erano i primi giorni di luglio, ma a 6 metri l’acqua era ancora fredda e non posso dimenticare la sensazione dei tagli di acqua gelida che si infiltrava dagli squarci che la mia muta aveva sotto le ascelle, per giunta gli occhi mi bruciavano a causa di malriusciti esercizi di svuotamento maschera. Quel “battesimo” durò più di un’ora e, una volta a secco, manifestando la mia insoddisfazione, mi sentii . rispondere: Cosa pensavi di trovare?

Un divano su cui accomodarti per guardare l’acquario? Ora lava bene l’attrezzatura e mi raccomando stasera non bere, non fumare, vai a letto presto, ci vediamo domattina alle 8”. Mi fu improvvisamente chiaro il motivo per cui i miei amici preferivano le partite a calcetto, quegli stessi amici che da quella sera avrei abbandonato nelle uscite serali per incontrarli al mattino quando, in camicia, rientravano dalla discoteca ed io uscivo, in canotta, direzione porto. Qualche anno dopo lo storico CESUB chiuse, lasciando un grande vuoto a Santa Maria di Castellabate, che però fu colmato dall’inaugurazione dell’associazione sportiva CILENTO SUB di Natale De Santis. Il fatto che l’addestramento, con metodi quasi militareschi, fosse terminato, me ne diede prova il vassoio colmo di “graffe” che ci aspettava a bordo ad ogni riemersione…. insomma iniziava finalmente il vero divertimento. Tanti sono i fondali all’ombra del faro di punta Licosa, posto su un’isoletta formata, secondo la leggenda, dalla sirena Leucosia che si gettò dalla rupe in mare, sconvolta dall’amore non corrisposto di Ulisse. Tanti sono i siti sommersi in questo tratto di parco marino, secondo alcuni uno dei posti più belli del mondo, che meritano particolare menzione. Come quelli della “Secca dell’Archivolta”, dove appena si schiarisce il fondo si ha un bellissimo colpo d’occhio dato dalla ricchezza biologica che, alla luce della torcia, riempie di colori ogni angolo del fondale, habitat ideale per il dotto, molto diffuso su questa secca, cosi come per la cernia bruna, il sarago, la corvina. Come la “Parete dell’ancora”, così chiamata per lo scenario suggestivo creato da un’ancora, presumibilmente d’epoca bizantina, lunga 4 metri che giace incastrata sul fondo della parete. Come la “Secca di Vatolla”, un’immersione che si svolge da 6 a 40 metri di profondità attraverso una parete, composta da roccia a lastre trasversali, che cade gradualmente formando progressivi scalini, tra barracuda e tonnetti che volteggiano tra la mangianza posta a mezz’acqua. 190 sono le immersioni annotate sul mio log book in questa zona ed ognuna di queste meriterebbe di esser raccontata. Ogni fondale mi ha lasciato un’emozione, una suggestione, un ricordo, ma quella più segnante è stata quella del “Relitto della motonave Alfieri”. Un’immersione attesa e desiderata a lungo, perché richiede preparazione, impegno ed esperienza oltre che condizioni meteomarine pressoché perfette. Ne avevo sempre sentito parlare, quella nave di 120 metri era lì, mi aspettava dal 1943 adagiata sul fondale di Punta Tresino. Vedere la maestosa sagoma durante la discesa è un’emozione notevole. Spirografi, spugne, anemoni e madrepore colorano le lamiere e branchi di dentici giganti, cernie brune, saraghi e gronchi rendono abitata la plancia. Un luogo magico. Consapevole del fatto che il più grande problema che affligge i subacquei è quello di lasciare il/la partner a terra mentre si è in mare, portandosi così sott’acqua oltre al peso delle bombole anche quello del senso di colpa, ho sempre cercato nelle donne che hanno fatto parte della mia vita la condivisione di questo sport. Ci sono riuscito con quella che poi è diventata, e non a caso, mia moglie: Annarita, quando l’ho conosciuta 15 anni fa, era una nuotatrice, non una subacquea ma il passo dalla superficie alla profondità è stato breve. La festa del nostro matrimonio si è svolta in un giardino affacciato su quel mare del Cilento, che insieme avevamo avuto modo di esplorare nelle sue profondità, e le foto del nostro viaggio di nozze sono tutte tinte dell’azzurro dell’oceano Pacifico che bagna la Polinesia francese: 10 giorni di immersioni full day tra squali, mante, tartarughe. Questa è stata ed è la cornice entro la quale si è effigiata una famiglia grazie anche all’arrivo di nostra figlia, Lara, che oggi, a 6 anni, è già una brava “apneista” e non appena sarà possibile ci accompagnerà negli abissi. D’altronde l’immersione è la metafora della famiglia: capirsi al volo con uno sguardo, una leggera stretta di mano, un tocco sulla spalla, rafforza il legame in una dipendenza reciproca. Oggi dalla mia casa di Milano non posso che avvalorare le parole di Jacques Cousteau “Il mare, una volta che ammalia, trattiene per sempre una persona nella sua rete di meraviglie”.